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   Sul frontespizio di un volume della biblioteca del canonico Pasquale Vastano (1881–1961), leggiamo un’annotazione riportata dallo storico Giancarlo Bova, che ne ha raccolto alcuni “Scritti editi e inediti” pubblicati di recente dall’Editrice Palladio nell’agosto 2023: “Educare vale liberare, liberare il corpo dalla inerzia e dalla mollezza, liberare l’anima da ciò che è puramente sensibile ed aprirle il volo verso regioni più ampie e sublimi, liberare la volontà dalla tirannia propria come dalla tirannia altrui”.

   Gli “Scritti” scelti dal Bova sono effettivamente motivati da un intento educativo finalizzato ad aprire la mente dei lettori verso armonie superiori. Un filo spirituale attraversa le pagine qui raccolte, del maestro e sacerdote chiamato a “responsabilità tremende” nei confronti dei suoi allievi da formare. E risultano formativi i saggi di filologia classica dedicati a Quintiliano (35 –96 d.C.) e ad Ilario (310–367), i commenti dei tragici greci Eschilo (525– 456 a.C.) ed Euripide (485–406), le analogie e le differenze tra il teatro antico e quello moderno di Alfieri (1749–1803), le analisi della poesia e della prosa di Manzoni (1785–1873), delle sculture di Canova (1757–1822), le osservazioni estetiche d’ordine figurativo e musicale, le note diaristiche d’ordine pedagogico e religioso insieme.

   Sono questi gli interventi del canonico Vastano che ci pervengono più nuovi, originali e promettenti, rispetto agli insistenti richiami obsoleti alla Real Casa, alla Patria, al Valor militare. Tralasciando per brevità le cerimonie, le onoranze, i solenni omaggi, le commemorazioni patriottico-religiose, preferiamo indugiare sulle sollecitazioni culturali e morali provenienti dagli “Scritti” in esame. Ad iniziare dalle “Istituzioni oratorie” di Quintiliano, si evidenzia la necessaria presenza delle qualità morali dell’oratore, che si vuole onesto e virtuoso, perché possa a sua volta fare degli allievi non solo buoni oratori, ma anche uomini onesti. Quintiliano ha avuto il merito di aver promosso un’eloquenza caratterizzata da una “nobile e maestosa semplicità”, non imbellettata, non composta da “concetti affettati, oscuri, gonfi, pieni di fasto e di ostentazione”. La “sincerità dell’accento” sarebbe stata anche di Ilario, il vescovo di Poitiers, idealmente accostato dal Vastano al retore di Calahorra, benché distanti nel tempo. Rifrugando nei dodici libri del “De Trinitate”, si scoprono tra le numerose figure ilariane: l’iterazione, l’anafora, la paronomasia, l’allitterazione, l’antitesi, l’interrogazione, l’esclamazione, atte a vivacizzare il discorso, a trattare plasticamente la materia oratoria, ma senza debordamenti. A dimostrazione del controllato linguaggio di Ilario, ci viene data in lettura una sua “cara e tenera lettera” alla figlia Abra, ripresa dal “Sant’Ilario” del reverendo Largent, dove lo scrivente invita la figlia a scegliere Gesù Cristo quale sposo.

   Dalla retorica latina alla tragedia greca, incontriamo Agamennone e Clitennestra. L’Agamennone di Euripide è il preferito dal nostro commentatore, che si sofferma sul padre che sacrifica l’amata figlia Ifigenia per propiziarsi Diana ed avere venti favorevoli alla sua impresa. L’Agamennone di Alfieri, secondo il giudizio del Vastano, comprende superandoli l’Atride “grandioso” di Eschilo, l’Atride “passionato” di Sofocle, l’Atride “affettuoso” di Euripide. C’è poi Clitennestra, “la figura più terribile e più possente ad un tempo” del teatro antico e moderno. La Clitennestra di Eschilo è “più poderosa” delle altre figure, perché “più oscura, più vicina al misterioso, alle profondità dove ha origine la vita umana, più spirante il respiro tragico e la divina musica senza parola, come avrebbe detto Federico Nietzsche”. Seguirà, dopo secoli, la Clitennestra di Alfieri, avvertita dal nostro critico “meno tenebrosa e più umana”: “Tutte le volte ch’io leggo la divina trilogia eschilea [“Agamennone”, “Le Coefore”, “Le Eumenidi”] e poi passo ad una lettura immediata delle tragedie di Alfieri, ho sempre l’impressione di passare da una orrenda notte rischiarata a tratti da luci rosse di sangue che ne accrescono l’orrore, ad una aurora tristissima, ma rischiarata dai raggi del giorno vicino”. C’è la “Clitennestra greca” senza rimorso dopo l’uccisione di Agamennone; c’è la “Clitennestra moderna” straziata dal rimorso e da esso finita, prima di essere spenta dal pugnale di Oreste.

   Dall’antico al moderno, dai ciechi voleri e dalle inquietanti superstizioni agli affetti umani e alle massime morali. È quanto si ritrova nel Manzoni, nella sua etica vissuta con la moderna trepidazione di un cristiano, di un uomo turbato che riesce a placarsi, ancora giovane, all’ombra serena della poesia. Il Vastano vuole ricordare “all’intelligenza degli scolari”, al loro cuore, alcuni versi del poemetto giovanile manzoniano “In morte di Carlo Imbonati” [Imbonati (1753–1805)], un invito al comportamento morale e al raccoglimento spirituale: “Sentir e meditar: di poco / esser contento: da la mèta mai / non torcer gli occhi, conservar la mano / pura e la mente: de le umane cose / tanto sperimentar, quanto ti basti / per non curarle: non ti far mai servo: / non far tregua coi vili: il santo Vero / mai non tradir: né proferir mai verbo / che plauda al vizio, o la virtù derida”.

   Gli altri poeti sciorinavano inni a Giove e a Pallade, annota il lettore manzoniano, mentre il nostro poeta, ancora ventenne, preferiva la scrittura meditativa, il perseguimento del vero, cantato in un modo accorato, ma senza sdilinquimento. Come sarebbe stato, in età matura, in quella grande operazione religiosa e civile che fu il romanzo “I promessi sposi”, il libro dei poetici affetti volti a fare il bene. Manzoni è annoverabile tra gli artisti buoni, tra quegli uomini utili alla società, che sanno suscitare “i più veraci sentimenti nell’anima”, che ci innalzano “nel campo fiorito della virtù”. Insieme allo scrittore lombardo si ricordano Dante, Petrarca, Leopardi, e della pittura Michelangelo, Raffaello, il Tintoretto, e passando alla musica Beethoven, Chopin, Wagner, ecc., artisti tutti portatori di “diletti spirituali” che “non sottostando all’imperiosa legge del tempo e dello spazio, e informandosi all’ampiezza, alla potenza, alla libertà illimitata e illimitabile di quella sublime essenza che è lo spirito, sono illimitati, sono vasti, sempre belli e sempre nuovi, e sono negli effetti grandemente salutari, perché educano il sentimento, ritemprano l’anima, rafforzano il carattere”. L’uomo che sa d’arte, che prova “godimenti spirituali”, oltrepassa la terra, si costruisce “mondi nuovi, vite nuove innanzi a sé”. Un quadro di Raffaello, una scultura di Canova, un notturno di Chopin, infondono nell’uomo “una vita superiore”, “una vitalità spirituale poderosa”, “un non so che di tenero, di ineffabile, di sovrumano”.

   Sono le sensazioni che il nostro commentatore prova ammirando le straordinarie sculture di Canova: i gruppi marmorei di Dedalo e Icaro, di Orfeo e Euridice, di Amore e Psiche, potenti visioni trasfuse nel marmo lavorato col “tocco del pollice sapiente”. La materia che qui ci attrae “non è pietra, ma sentimento”. Materia dotata di “spiritualissima grazia”. Può infine essere questa la lezione del canonico Vastano, l’educazione augurale del maestro ad una mutazione: che l’uomo scopra la leggerezza del marmo, imparando a trarre dal peso della vita la levità dello spirito.

 

   Antonio Falcone

   Firenze, settembre 2023

 

 

 

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Aggiornato il: 27 novembre 2023