Leggiamo da una pagina
delle prediche del canonicoPasquale
Vastano: “In certe ore tristi, che lasciano
tracce profonde nel diario di ognuno di noi,
l’anima, schiacciata dalla malizia degli
uomini e dai colpi raddoppiati della
sventura, sente il bisogno di elevarsi a
Dio, per attingere da Lui un’onda eterna di
luce, di vita, di beatitudine ineffabile”.
È la pagina di un diario
privato reso pubblico, composta da una guida
spirituale che nel confessare il suo umano
turbamento avverte la necessità di
confrontarsi con i suoi fedeli,
condividendone il dolore e la speranza.
Così una predica può
arrivare all’anima come una sonata, di
beethoveniana memoria, dove alla denuncia
del conflitto segue la sublimità della
meditazione.
Gli uomini confliggono in
un mondo ridotto ad “aride sabbie” e “dure
pietre”, da attraversare col gran peso delle
“afflizioni e amarezze senza numero” che
ammalano lo spirito.
Questi uomini dai “cuori
guasti”, viventi nella “indifferenza”, ben
informati dei “velocissimi treni” e dei
“piroscafi”, non sanno degli asini lenti,
delle povere barche, non hanno il passo
discreto di Gesù, non hanno mai visto i suoi
“limpidi occhi”, il suo “volto sereno”, non
hanno cognizione del suo amore.
C’è da dolersi: “Gli
uomini dimenticano Gesù!”, “non si pensa a
Gesù”, lasciato solo, in quelle “chiese
vuote”, dove è pur sempre pronto a
riceverci, “senza raccomandazioni, senza
giorni fissi”.
Oggi, un’afosa mattina
d’estate, sono entrato in casa sua, ho
preferito una delle “umili chiese” dagli
“altari poveri e disadorni” alle “maestose
basiliche” dagli “altari di marmo e d’oro”.
C’era ad accogliermi don
Pasquale, a presentarmi a Gesù, pronto a
salvarmi come fece con i pescatori in
pericolo, ad “acquietare il vento”, a
“calmare il mare” che mi minacciano.
Il canonico, maestro di
greco e di latino, mi traduce con le parole
semplici di un “maestro di fanciullini” il
pensiero e la vita vissuta di quell’uomo, la
vita dell’uomo nuovo mai finita, appena
cominciata.
Con “la parola
robustamente tranquilla del Vangelo”, il
predicatore, in nome di Cristo, auspica la
caduta dei “tiranni” e la giustizia per gli
“oppressi”, avverte l’urgenza di “porre fine
all’odio fratricida”, fa l’augurio che sia
l’“amore” a prevalere sullo “spavento”.
Si può, si deve amare,
“senz’armi né scienza”, come il pescatore
Pietro bravo ad apprendere da Gesù “idee
nuove”, come il pastorello Vincenzo che pur
povero donava “farina” ai poveri, come il
ragazzo felice di offrire ai suoi cari il
“ramoscello di olivo”.
Le parole di don Pasquale
continuano a fluire come l’acqua limpida
d’un fiume sottile, sono note sacre che si
moltiplicano: è la “moltiplicazione” dei
pani e dei pesci narrata da Giovanni e
Marco, è la loro divisione comunitaria, la “fractio
panis”, il pane spezzato e distribuito
alla “tavola comune”, in nome della solidale
communitas più forte di ogni gelosa
immunitas.
Quei “cinque pani e due
pesci” buoni a sfamare “cinquemila persone”…
quale prodigio!
Non è matematica né magia,
è spiritualità, che asciuga le umide pareti
della chiesa dove sono entrato, fa luce ai
quadri santi oscurati dal tempo, dà buoni
frutti alla “pianta celeste innaffiata dal
sangue di Cristo”.
Lascio il canonico
chiudere il diario con la copertina nera
come il coperchio d’un pianoforte, l’ultima
parola ora mi vibra dentro come una nota,
all’uscita: “Gesù non ci abbandona”.