Giancarlo Bova, Le
pergamene aragonesi della Mater Ecclesia
Capuana (1460 – 1467) ed. Palladio,
Salerno, 2023
Era il Quattrocento, il tempo dei
“nominativi fritti” del Burchiello e
dell’“ippogrifo” cavalcato dall’Ariosto, il
tempo dell’ingegneria leonardesca e della
diplomazia laurenziana, quando nel regno di
Napoli governava Ferdinando I d’Aragona, di
cultura giuridica, meno letteraria di quella
del padre Alfonso, chiamato a gestire la
difficile transizione dall’età feudale
all’età urbana, richiedente un rinnovamento
economico, la promozione del commercio, non
certo agevolata dalla ritrosìa dei baroni e
dalla diffidenza della Chiesa. È il contesto
in cui si muovono le indagini di Giancarlo
Bova, l’autore del volume “Le pergamene
aragonesi della Mater Ecclesia Capuana (1460
– 1467). L’età di Ferdinando I d’Aragona”,
il VI edito dalla Palladio, che segue al V
(1455 – 1459) riguardante prevalentemente
l’età di Alfonso il Magnanimo (va rilevato
che la storiografia di Bova, si può dire
sull’esempio di Marc Bloch, preferisce la
dinamica investigazione alla statica
sistemazione, contrariamente a quanto si
possa pensare di quella scienza storica che
è la Diplomatica). Tante le pergamene
studiate con la massima cura dal nostro
storico: qui leggiamo le carte locacionis,
vendicionis, permutationis, donacionis,
emancipationis, testimonianti i traffici
economici, le dinamiche sociali, le
corrispondenze parentali, che animavano
Capua e dintorni, la città e il suo contado,
negli anni sopra ricordati. Riandando a quel
tempo, a cominciare dal 1460 – non si sono
cancellati i segni del terremoto del 1456 –,
alcune domus risultano ancora collapse e
ruynate, che Nicola prende in fitto dai
canonici, con l’impegno di ripararle e di
versare ogni anno alla congregazione dieci
grani d’oro. I procuratori della
congregazione si recano spesso in cattedrale
a stabilire l’affitto di immobili alla
presenza del giudice, del notaio e dei
testimoni, come nel caso di Giorgio che
riceve in enfiteusi, in cambio di dieci once
di carlini d’argento, una presa di terra su
cui edificare una domus con orto, corte e
forno. I procuratori della congregazione del
Capitolo, alla presenza dell’Arcivescovo di
Capua Giordano Gaetano (a cui il Bova ha
recentemente dedicato un’interessante
biografia), fittano pezze di terra di
proprietà della congregazione bisognosa di
denaro liquido occorrente per l’ampliamento
e l’arredamento delle chiese, a cominciare
dalla cattedrale: così a Giacomo, il
maggiore offerente all’asta pubblica,
vengono fittate in enfiteusi due pezze di
terra, a suon di carlini d’argento e grani
d’oro. Nel coro della cattedrale si
presentano puntualmente i canonici
procuratori che fittano in enfiteusi anche
piccole pezze di terra boscose, come ai due
fratelli Stefano e Antonello, anche in tal
caso dietro la corresponsione annua di
denari, che saranno utilizzati dalla
congregazione per la realizzazione dell’or-
gano destinato alla grande chiesa capuana.
Si può dare il caso che i canonici
propendano a fittare terreni di scarso
valore, terre non buone, improduttive: è
quanto viene dato in locazione all’ortola-
no Nicola, una terra padulosa, aquosa et
morbidosa, non affatto allettante, che però
frutterà alla Camera Arcivescovile locatrice
un bel po’ di tarì all’anno.
Dall’ortolano passiamo al nobilis et
strenuus vir Alfonso, che per sedici once di
carlini d’argento riceve dalla badessa con
il consenso delle monache conventuali alcuni
beni in feudum: sono case e tre pezze di
terra date in fitto a tre artigiani chiamati
a prestare servizi e a versare ogni anno al
feudo grani d’oro. La Chiesa capuana del
’400 è impegnata non solo nelle locazioni,
ma anche nelle vendite, come ci documenta
Bova. Talvolta di una pezza piantata ad
alberi fruttiferi una parte franca non è in
vendita e una parte enfiteutica lo è. C’è
sempre un canonico, procuratore della
congregazione, che per un certo numero di
once de carlenis argenti dà il consenso alla
vendita di una domus, il cui acquirente sarà
tenuto a versare alla congregazione
annualmente tarì d’oro. Oltre alle locazioni
e alle vendite, si attivano anche le
permute, che possono darsi su iniziativa di
religiosi: è il caso di due cappellani,
Rencello e Fabrizio che contrattano con
Riccardo, permutando la terra della
congregazione di quattro moggia meno sei
passi con quella di Riccardo di quattro
moggia meno tre passi, di qualità migliore!
Non mancano le donazioni, che ci allontanano
dalla mera contabilità, non proprio del
tutto consona allo spirito cristiano: Mecca,
vedova di Carlo, dona al canonico Giovanni
l’usufrutto assegnatole in testamento dal fu
canonico Francesco, relativo a due pezze di
terra. La dinamica economica della Chiesa
può toccare anche la sfera affettiva: è
quanto troviamo in una carta emancipationis,
dove il padre Antonio dona al figlio Alfonso
maggiore di diciotto anni per la sua
emancipazione una bottega franca.
L’interesse materiale sembra comunque
prevalere sull’afflato spirituale, e a
dimostrarlo interviene il caso del defunto
don Giovannello, in vita tesoriere della
cattedrale, che ha ricevuto dai fedeli
denaro mai da lui registrato, di fatto
sottratto alla congregazione, che reagirà
con la requisizione di tutti i beni del
discutibile Giovannello morto senza eredi.
Giovannello ammalatosi aveva ripetuto più
volte: “Yo lasso per lanima mia alo capitulo
di Capua tucta la roba mia”… in quel tempo
erano frequenti, e avrebbero continuato a
esserlo, i testamenti che i moribondi
dettavano pensando alla salvezza della loro
anima, come fa Antonello che sceglie quali
suoi eredi varie chiese, monasteri e
ospedali, a condizione che provvedano alla
celebrazione degli anniversari nei giorni
della morte dei suoi genitori, di suo
fratello e di se stesso. Si lasciano in
eredità non solo case, pezze di terra, ma
pure oggetti, magari appartenuti al proprio
lavoro e al proprio amore: un paio di
forbici, una sella, una cintura d’argento,
dei gioielli, anche l’assegnazione annuale
di barili di vino alla moglie rimasta vedova
a condizione che non si risposi! A prevalere
sono le case, numerose: date in fitto,
vendute, ereditate, insieme alle pezze di
terra, che il nostro storico non trascura,
attento a visitare le chiese, i monasteri,
gli ospedali di Capua e, sempre attraverso
le pergamene, le località del contado.
Dietro corresponsione di once e tarì si
vendono vigne e frantoi, le transazioni si
fanno alla presenza dei procuratori della
Camera Arcivescovile che danno il consenso
alla vendita. Le località del contado
interessano non solo l’area strettamente
capuana, ma anche Marcianise, Caserta con le
sue frazioni di Sala ed Ercole, altri
territori campani e pure laziali: sono
spesso terre arbustate, orti, spazi
provvisti di cisterne e forni. Può notarsi
un contrasto tra questi paesaggi naturali,
lambiti dal fiume Volturno, vividi, anche se
non sempre fruttuosi, e le chiese che a
volte risultano artificiali, eccessive,
sovraccaricate, quale la stessa cattedrale
di Capua, dove qualche fedele avvalendosi
del suo potere ordina la costruzione di una
cappella per la sua sepoltura unita a una
colonna di marmo. Ma non mancheranno
interventi ad alleggerire il duomo della sua
plumbea monumentalità, come quando per
esempio si provvederà a maiolicare la
sagrestia con rappresentazioni floreali, o a
dotarla di un organo che col suo suono
spirituale fugasse le ombre luttuose del
terremoto e le luci inquietanti della cometa
di Halley del 1456. Case crollate, altre
pericolanti, e gli uomini in bìlico, le loro
anime da salvare, fuori dal traffico delle
once d’oro e d’argento.