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GIANCARLO BOVA, Le pergamene angioine della Mater Ecclesia Capuana (1281-1282), V. L’età dei Templari, Palladio Editrice, Salerno 2017, pp. 624, 32 foto a colori, 12 foto b/n.

L’Introduzione di Giancarlo Bova vale quanto un libro, uno di quei libri degli “annalisti” francesi che mi davano ossigeno: studente universitario, mentre leggevo talvolta testi asfittici, mi capitava tra le mani qualcosa di più arioso, ad esempio un Emmanuel Le Roy Ladurie, con i suoi “Contadini di Linguadoca”, a dirmi che la Storia è una questione di uomini con la loro vita quotidiana, piuttosto che di idee con la loro presunzione imperitura.
Leggendo l’Introduzione dell’Autore mi sono rituffato nel clima di quella storiografia così particolare, degli esami di Storia moderna, che furono impegnativi per me. La sua piccata premessa, in merito al suo lavoro ostacolato dalle istituzioni assenti, dalla presente “parentopoli” accademica, dall’ostracismo e dall’irriconoscenza, ha meritato la mia attenzione. Come non essere riconoscente ad uno storico come Bova? Come non incoraggiarlo a continuare il suo lavoro? Di uno storico che opera con onestà intellettuale, che disdegna le manovre truffaldine degli storici improvvisati, usi a glissare su testi mai analizzati, a pilotare le bibliografie, ad allestire convegni.
In direzione contraria il Bova va alle fonti, con la curiosità solerte del ricercatore che vorrebbe incoraggiato a “studiare” e a “pubblicare”, imponendo a se stesso un dovere: “I ricercatori devono aprire strade nuove, reperire nuovi documenti”. Prendendo le distanze dagli orecchianti, così l’Autore rivendica il diritto allo studio, che conduce da decenni verso traguardi sempre superati, con quel suo rigore che non è solo occhiuta acribia, è generoso impegno, utile ai lettori disposti, insieme a lui stesso, alla ricerca della verità: verità nascosta sotto le pergamene (normanne, sveve, angioine, aragonesi) da investigare, quelle pergamene nelle quali lo storico si rispecchia per intero. Di qui le sue “sudate carte”, che dicono di uno studio non solo cartaceo, non sedentario, che dicono di un cammino attraente, buono ad attrarre per intero. Non solo capitoli, ma anche siti da rintracciare, all’inseguimento di qualcosa che vada oltre la regolamentazione dei beni, oltre la loro giustificazione spirituale: al di qua delle cattedrali ci sono le campagne e i loro contadini ancora viventi da interrogare; al di là delle cattedrali ci sono altre ragioni di vita, esigenze che si schiodano dall’Economia e dalla Chiesa, esistenze sfuggenti che tocca allo storico inseguire, non catturarle, ma comprenderle.
Valgano alcune immagini proposte dall’Autore, a dirci del desiderio, proprio dello storico, di fermare la Storia, e della consapevolezza, ancora dello storico, dell’impossibilità dell’operazione, comunque da tentare, perché sul Tempo c’è da scommettere: si avverte una sua sofferenza psicologica mista ad un suo godimento tattile, a contatto con quelle pergamene conservate nelle sacche come appartenenti ad un “archivio mobile”, con quei “quaterni” sciolti mai rilegati, con quelle bolle vescovili fornite di “sigilli pendenti” di piombo, o addirittura d’oro …, materiali prelevati dai “depositi”, alcuni “in restauro”, altri “scomparsi”.
La fluidità, per non dire la precarietà degli uomini e delle cose, ci indurrebbe a deporre le armi, ma lo storico non si dà per vinto, egli continua a combattere per un’improbabile completezza, lo storico resiste perché forse crede più degli altri nella vita, nella possibilità di custodirla per sempre. Così può succedere che lo storico s’aggrappi alla numerazione a lapis sul dorso della pergamena, o al signum lasciato dal notaio, mantenendo il conto delle pezze di terra e dei mulini dati in concessione, il conto delle transazioni, il conto dei tarì e dei fiorini a disposizione della Storia.
Storia spirituale e materiale, attraversata dalle confraternite devozionali e dalle corporazioni lavorative: dai maestri, grammatici, bibliotecari, archivisti, cancellieri; ai falegnami, canestrai, sarti, tintori, calzolai, pure “calzolai che rappezzavano le vecchie pianelle”; agli addetti alle cibarie, quali i molinari, i farinari, i maccaronari, i cernitori di grano. Storia delle convergenze e delle costruzioni: si produce, si mangia e si cresce a Capua, città europea sul Volturno e sull’Appia, pari a una città marinara italiana come Amalfi.
Storia dei contrasti e delle lacerazioni: un benessere diffuso laddove la fame, talvolta congiunta alla violenza, vedeva i genitori affidarsi alla Provvidenza “per il futuro alimentare dei loro figli”. Capua medievale che ospita Francesco e assiste ad un miracolo del santo che salva una donna dalle acque del fiume, Capua che ospita Boccaccio innamorato di Fiammetta … Capua redditizia della lana, della canapa e del lino, che conosce anche la povertà, la società degli affamati, ricordati dallo storico.
Un atteggiamento storiografico va riconosciuto a Bova, da lui stesso rilevato in una nota indirizzata a quegli storici, o sedicenti tali, che forzano i documenti a “dire ciò che non dicono”.
Nella quantificazione delle superfici e nella qualificazione degli uomini che le hanno ricoperte l’Autore è risultato equo, equilibrato, non fazioso. Le luci e le ombre di Capua vengono denunciate tutte, senza riserve, parlandone con passione, misurata passione, dalle origini ai giorni futuri: da Capua antica incendiata dai Saraceni, a Capua nuova fondata sulle rive del Volturno, dall’841 circa all’856, fino al 2017 quando, in una lettera al ministro dei Beni Culturali, Bova traccia il disegno delle due Capue (vetere e neo) unificate sotto l’auspicabile guida di un unico sindaco. “Capua … un Museo all’aperto”, non uno slogan, turistico e pubblicitario, ma una proiezione, storica e culturale.


Antonio Falcone
Firenze
 

 

 

 

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Aggiornato il: 01 maggio 2019